Ringraziamo il mitico Ugo Pierri, i numerosi intervenuti, e i gentilissimi Michael Blume e Luciano Neri della Galleria Studio 44 per la bella serata!
Foto Andrea Soundrift.
I. Dialogo iniziale
Non ho mai conosciuto un uomo così incline al silenzio.
Neppure io.
Non ho mai conosciuto un uomo tanto rispettoso verso i propri superiori.
Fin troppo.
Non ho mai conosciuto un uomo così poco propenso allo scherzo.
Pare impossibile.
Eppure non era vecchio.
Nato di sicuro da genitori molto anziani.
Un uomo d’altri tempi.
Chi ci preparerà il tè adesso?
II. Camposanto
Il cimitero di Berenice è tanto simpatico che la
stessa terribile idea della morte diventa estrema mente allegra.
Le tombe sono semplici lastre di marmo dove pare che la mano tremolante di un fan ciullo abbia inciso epitaffi fiabeschi. L'erba è grassa
e verde ed i fiori crescono in egual bellezza sia sulle tombe dei ricchi che sui tumuli dei meno abbienti, a dimostrazione evidente che la morte, da quelle parti, non guarda in faccia nessuno. In esso vi sono tre alberi di ciliege. Molto grossi e vecchi d'un bel colore rosso cupo. Le ciliege se le prendono i monelli che di notte per dimostrare il loro coraggio scaval-
cano il muretto, di delicatissima fattura, uno alla volta mentre i compagni imitano, con poca verosimiglianza, il lamento dei defunti.
Più che un cimitero sembra un bell'orto. Osservazione avvallata dal fatto che sorella Ligeia vi ha piantato fagioli, patate e pomodori che vengon su
assai bene.
La mattina dell'11 aprile il sole splendeva alto nel cielo come del resto usava fare da qualche tempo e le ciliege rosseggiavano nel piccolo camposanto. L'atmosfera era limpida e pacifica, quando ai piedi
della collinetta si udì un piccolo rumore.
La lapide della tomba di Vincent Price si piegò da un lato e cadde rimanendo intatta sull’erba soffice del praticello.
Il cimitero di Berenice è tanto simpatico che la
stessa terribile idea della morte diventa estrema mente allegra.
Le tombe sono semplici lastre di marmo dove pare che la mano tremolante di un fan ciullo abbia inciso epitaffi fiabeschi. L'erba è grassa
e verde ed i fiori crescono in egual bellezza sia sulle tombe dei ricchi che sui tumuli dei meno abbienti, a dimostrazione evidente che la morte, da quelle parti, non guarda in faccia nessuno. In esso vi sono tre alberi di ciliege. Molto grossi e vecchi d'un bel colore rosso cupo. Le ciliege se le prendono i monelli che di notte per dimostrare il loro coraggio scaval-
cano il muretto, di delicatissima fattura, uno alla volta mentre i compagni imitano, con poca verosimiglianza, il lamento dei defunti.
Più che un cimitero sembra un bell'orto. Osservazione avvallata dal fatto che sorella Ligeia vi ha piantato fagioli, patate e pomodori che vengon su
assai bene.
La mattina dell'11 aprile il sole splendeva alto nel cielo come del resto usava fare da qualche tempo e le ciliege rosseggiavano nel piccolo camposanto. L'atmosfera era limpida e pacifica, quando ai piedi
della collinetta si udì un piccolo rumore.
La lapide della tomba di Vincent Price si piegò da un lato e cadde rimanendo intatta sull’erba soffice del praticello.
III. Parentesi letto
Rientrato in casa, dopo aver garbatamente avvertito
il vicino di casa che aveva sbagliato appartamento e
addirittura letto, si allungò accanto alla moglie che
fingeva di dormire.
IV Il fantasma
Quando lord Price si sentì tirare il tallone del piede sinistro si ricordò della vecchia ferita di sciabola buscata in guerra, sospirò e si rigirò nel letto.
Ma quando ad un seguente strattone seguì un amichevole “Ehi senti!” balzò a sedere e piantò i suoi occhi dilatati nel lenzuolo bianco dello spettro che appoggiato alla spalliera del letto lo guardava con il mento affossato nel palmo della mano, scheletrica.
Deglutì un po’ di saliva e mentre il cuore gli ricordava la sua cronica
aritmia tentò di dire qualcosa ma le sillabe si perdettero in quella bocca desolatamente secca.
Non temere - fece il nuovo venuto carezzando un pomo del letto - sono un tuo antenato, un lontano parente, ormai ridotto in polvere, ma un tuo antenato.
Price accortosi di avere un’espressione assolutamente inospitale, abbozzò un sorriso e tentò di alzarsi. Ma le gambe gli si piegarono e ricadde disteso
sul letto. Nonostante fosse un parente, il nuovo venuto lo aveva letteralmente spaventato.
Il lenzuolo bianco disse di essere stato cacciato dalla casa degli Usher, e si affrettò a scusarsi per quella macchia rossa che deturpava il suo costume: segno
di un pomodoro lanciatogli dal figlio viziato e senza avvenire dell’attuale proprietaria.
Ah, gli Usher!
Vogliono vendere il castello, non chiedo che un po’ di ospitalità e qualche buon libro da leggere.
Vincent Price rimessosi dall’emozione si grattò la testa.
Ah, gli Usher! Gli avevano rapinato un’eredità. Sequestrato sua nipote per un vergognoso matrimonio.
Rubato uno stallone.
Siate gentile con me, io saprò ricompensarvi, supplicò lo spettro.
Price non immaginava come uno spettro avrebbe potuto aiutarlo se non spaventando qualche domestico impertinente. Schiacciò signorilmente uno sbadiglio, con mano delicata si riavviò i radi capelli.
Un improvviso senso di pietà per quel povero lenzuolo piagnucolante lo vinse e si sentì rassicurato. Potete restare! Acconsentì, ma tremò quando
l’ospite fece il tentativo di abbracciarlo.
Ah, gli Usher!
Lo spettro non poté far a meno di scoppiare in un pianto di gioia e, in un torrente di lacrime, narrò le sue vicende alquanto tristi.
Io sono Roderick , fratello della tua ava Ligeia. Molti, molti anni fa, al termine della guerra delle Due Rose, se ben rammento, un visconte impazzito per la lunga prigionia mi lasciò in eredità la casa degli Usher (qui il fantasma ebbe un gran sobbalzo probabilmente pensando al piccolo lanciatore di pomodori), dove vissi tranquillamente e morii quietamente nel mio letto a novantanove anni. Nessun incidente, nessuna calamità turbò la mia esistenza.
Non fui murato vivo, né incatenato nella torre, e neppure impiccato o gettato nel pozzo. Non ho mai fatto del male a nessuno. Non so far paura ad anima viva! Per questo mi hanno cacciato.
Price si accorse che il poveretto era tutto sudato e tremava come un budino.
Il suo volto era malinconico ma di una bellezza straordinaria. Le sue maniere signorili.
Sono indissolubilmente legato a quella casa!, concluse fissando il tremolio della candela che Price aveva acceso.
Farò il possibile perché vi troviate bene, promise l’ospite e vinto da stanchezza indicibile si girò sul fianco destro e piombò nel sonno profondo del giusto.
La biblioteca conteneva per lo meno ventimila vo lumi, tutti splendidamente rilegati in pelle rosso bruno. Erano libri molto vecchi e presero fuoco in un baleno.
Lo spettro molto miope, a causa della lunga permanenza in corridoi e soffitte quasi privi di luce, nell’avvicinare il candeliere alla pagina aveva appiccato il fuoco al volume e all’intera biblioteca.
Le fiamme si alzarono altissime nel castello. Lo spettro corse su con un secchio d’acqua spaventando i domestici che urlavano inferociti mentre le fantesche con le poppe allo scoperto ruzzolavano per le scale.
Lo spettro, lo spettro!
Scapparono tutti e scomparvero tutti nei boschi circostanti.
Maledetto, lo assalì lo stalliere; tentò di abbrancarlo con l’evidente intenzione di spaccargli il cranio. Ma non prese che un bel niente. Poi se la diede a gambe pure lui.
Price, che stava sognando maneggi erotici in pae saggi esotici, fu svegliato dal fracasso.
Scese in fretta, nella sua vestaglia di seta azzurra.
È stato un incidente, un semplice incidente, si giustificò Roderick nel suo lenzuolo bruciacchiato.
E mentre Price masticava un ennesimo “Ah, gli Usher!”, il tetto cedette e sprofondò, in un braciere gigantesco.
Tutta la contea conobbe le malefatte del piromane.
Vincent Price si spense a poco a poco colto da una forte crisi di melanconia.
Lo spettro divenne più pallido del solito, non lesse più. Vagò di castello in castello in cerca di ospitalità.
Tentò di tagliarsi le vene dei polsi varie volte, ma inutilmente.
V. Il male oscuro
Il dottor Valdemar passò delicatamente la mano sui docili capelli di lady Rowina, le tastò il polso e fu percorso dal gelido fremito della vita che fugge.
La guardò amabilmente attraverso i suoi occhiali piccolissimi in equilibrio sul naso a punta ed uscì dalla camera.
Gli amorini scolpiti, che reggevano il baldacchino del letto se ne stavano mesti e silenziosi. A stento trattenevano le lacrime. Temevano la sorte della loro padrona alla quale per tanti anni avevano fatto buona compagnia. Uno di loro vezzosamente con una tenera manina si tappava le narici.
Nella stanza infatti regnava un tanfo emetico. Una irresistibile puzza di cose marcite, mista all’acre odore dei medicinali, del tutto simile a quella dei grandi mucchi di rifiuti lungo il fiume fuori città, da togliere il fiato.
Di lady Rowina non restava che un corpicino diafano sperduto tra i guanciali di quel letto monumentale. Ed i suoi denti magnifici, che parevano brillanti. Il male oscuro, come lo definiva l’assistente del dottor Valdemar, l’aveva resa irriconoscibile; paurosamente pallida e senza forze attendeva solo di morire.
Un amorino più emozionabile degli altri non resistette allo strazio e librandosi nell’aria scagliò lontano il suo arco e volò via dalla finestra aperta sul parco.
Una magnolia gigantesca del parco sbirciò nella stanza lasciando cadere un fiore immacolato.
Non le rimangono che poche ore, fece il dottor Valdemar, il polso è appena percettibile, e confermò la sua conclusione con una pinta di birra.
È la fine? chiese Price.
È la fine.
Price aprì l’uscio e camminò lungo il corridoio, compianto dagli antenati che dalle loro pesanti cornici dorate gli battevano amichevolmente le spalle.
Morella, lady Morella, chiamò sottovoce.
Una bellissima fanciulla apparve nel vano di una porta socchiusa. Si premeva un fazzoletto spruzzato di colonia sulle tempie.
Price le prese la mano e la strinse a sé.
Aprirono la porta della stanza della malata ed in punta di piedi le si avvicinarono.
Lady Rowina respirava a fatica. Le palpebre abbassate e le mani smunte, incrociate sul petto annodate da un lungo rosario di madreperla indicavano che l’ora era più vicina di quanto non si pensasse.
Mandate a chiamare il reverendo Lugosi, ordinò Price alla domestica pallida come la sua cuffietta inamidata.
Rowina, Rowina cara.
La poveretta levò gli occhi verso di lui.
Un altro putto scappò innaffiando la bellissima fanciulla che era entrata con Price con un rigagnolo di lacrime profumate.
Rowina, mia cara, questa è colei che prenderà il tuo posto. Prese la mano alla moglie e la baciò.
L’alito della Morte si fece sentire. Avanzava con passo lento e misurato, digrignando i denti sotto il lenzuolo lacero e vecchio quanto il mondo, con la
sua falce, luccicante al bel sole di uno straordinario settembre.
Vincent, sospirò la moribonda con un filo di voce, dammi la sua mano.
Morella allungò il braccio.
Abbi cura del mio Vincent. E dopo uno sguardo rivolto al dottore. Come sempre, ha avuto buon gusto!
La meravigliosa fanciulla scivolò sul letto e piombò a terra.
L’accozzaglia di acri odori ed il caldo stagnante l’avevano fatta svenire.
Dottor Valdemar!
Morta, stilò il dottore con un’altra pinta di birra.
Il cielo si oscurò e le rondini volarono basse. I corvi gracchiarono svolazzando a centinaia attorno alla villa. In un baleno il vento picchiò sulle alte mura della torretta. Scoppiò violento il temporale e le tende fuggirono dalle finestre spalancate e volarono per tutta la campagna, spaventando i contadini.
Dottor Valdemar, potrei avere una tazza di brodo?
domandò improvvisamente lady Rowina.
Perché no?
Alla tazza di brodo seguì un bocconcino di pollo.
Una porzione di crema di asparagi, un dolcetto di marzapane, due pere sugose, con le quali la signora si lavò il viso e tre coppette di gelato si avvicendarono con ritmo crescente. Il reverendo Lugosi uscì dalla camera premendosi il libro di preghiere sul ventre. Era stato lui a scoprire l’armadio dei vestiti pieno di rifiuti.
Con una trota «alla Anna Bolena» il male oscuro fu definitivamente debellato.
Morella fu sepolta in un cimitero lontano, molto lontano dalla villa.
Il dottor Valdemar triplicò la sua clientela nonostante le sue parcelle fossero salite in modo vertiginoso.
A Vincent Price non restò che la cura della serra e la biblioteca, dove si chiudeva a chiave per lunghe ore. I suoi capelli ebbero bisogno di molte tinture e caddero in breve tempo.
Lady Rowina diede una festa al mese e fu la più corteggiata delle donne della contea. Venivano da Londra i migliori partiti per conoscerla.
VI. Il piccolo suicidio.
Tante storie per vendermi una pistola.
Ma il desiderio di possedere quel pericoloso giocattolo era
troppo forte per il giovane Vincent. Lo
tratteneva in tasca e lo accarezzava. Come fosse un
docile animaletto.
Controllava ad ogni passo se fosse ancora al suo posto.
Premeva il grilletto ed il tamburo girava. Ad
ogni scatto un brivido di eccitazione.
Pensava di usarla come fermacarte per il suo tavolo
pieno di fascicoli e di libri.
Era tardi. Tempo di rincasare. Di mangiare un boccone.
Un’ultima ora di studio prima di buttarsi sul
letto. A rigirarsi con i suoi sogni.
Salì le scale senza far rumore. La sorella leggeva ad
alta voce, la luce sbirciava da sotto la porta. La stanza dei
genitori masticava chiacchiere e mugugni.
La mamma pregava: “Signore, manda la pioggia!
Che il giardino non rimanga secco. Che le mie begonie non muoiano”.
“Cosa credi che non lo sappia che vai a trovare
quella puttana della signora Flint ogni venerdì
sera!” sentì urlare la madre.
La nonna dal suo sgabuzzino: “Ohiohi, tutto mi fa
male. Verrà il giorno che rimarrò inferma. Non potrò più muovermi - piagnucolava tenendo la coroncina in grembo tra le mani
artritiche - Dio mio, fa’ che non piova. Per i miei reumatismi,
ti prego!”
Il giovane Vincent si fermò sul pianerottolo. Statua
di gesso. Come se gli avessero succhiato il cervello.
La sorella leggeva le terribili storie della Bibbia, che
la tromba delle scale esaltava in plusvalore di decibel.
Vincent sentì le spalle diventare sempre più pesanti.
Le caviglie appiombarsi. Gli occhi diventare di pietra. Si trascinò
su per le scale. In soffitta.
La pistola esplose nella sua testa turbinante il proiettile definitivo.
Tante storie per vendermi una pistola.
Ma il desiderio di possedere quel pericoloso giocattolo era
troppo forte per il giovane Vincent. Lo
tratteneva in tasca e lo accarezzava. Come fosse un
docile animaletto.
Controllava ad ogni passo se fosse ancora al suo posto.
Premeva il grilletto ed il tamburo girava. Ad
ogni scatto un brivido di eccitazione.
Pensava di usarla come fermacarte per il suo tavolo
pieno di fascicoli e di libri.
Era tardi. Tempo di rincasare. Di mangiare un boccone.
Un’ultima ora di studio prima di buttarsi sul
letto. A rigirarsi con i suoi sogni.
Salì le scale senza far rumore. La sorella leggeva ad
alta voce, la luce sbirciava da sotto la porta. La stanza dei
genitori masticava chiacchiere e mugugni.
La mamma pregava: “Signore, manda la pioggia!
Che il giardino non rimanga secco. Che le mie begonie non muoiano”.
“Cosa credi che non lo sappia che vai a trovare
quella puttana della signora Flint ogni venerdì
sera!” sentì urlare la madre.
La nonna dal suo sgabuzzino: “Ohiohi, tutto mi fa
male. Verrà il giorno che rimarrò inferma. Non potrò più muovermi - piagnucolava tenendo la coroncina in grembo tra le mani
artritiche - Dio mio, fa’ che non piova. Per i miei reumatismi,
ti prego!”
Il giovane Vincent si fermò sul pianerottolo. Statua
di gesso. Come se gli avessero succhiato il cervello.
La sorella leggeva le terribili storie della Bibbia, che
la tromba delle scale esaltava in plusvalore di decibel.
Vincent sentì le spalle diventare sempre più pesanti.
Le caviglie appiombarsi. Gli occhi diventare di pietra. Si trascinò
su per le scale. In soffitta.
La pistola esplose nella sua testa turbinante il proiettile definitivo.
(Testi da Ugo Pierri, "Amore e morte (I like Vincent Price)" edito dal Battello Stampatore).
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